LE AZIENDE DI FRONTE ALLA SFIDE DELLA COMPLESSITÀ

Le grandi trasformazioni della nostra epoca – la disruption digitale, la globalizzazione, il  cambiamento climatico – e le crisi ormai frequenti e su larga scala, ultima in ordine di tempo l’emergenza sanitaria ed economica determinata dal Covid-19 impongono alle aziende di pensare in modo diverso, di alzare gli occhi, a guardare il sistema nel suo complesso. Gli strumenti per farlo ci sono: pensiero sistemico, teorie della complessità, approccio olistico non sono sicuramente temi nuovi, ma in ambito aziendale non sono mai stati popolari, sicuramente molto meno di altri concetti più di successo. Come mai è successo questo?

A mio parere alla base dell’insuccesso ci sono state due “visioni” poco corrispondenti all’energia e al pragmatismo del mondo aziendale:

  • la visione sistemica: guardare gli interi anziché le parti, le relazioni piuttosto che le singole cose o persone, le strutture sottostanti al posto degli eventi che accadono in superfice etc.; un modo di vedere corretto ma che si traduce in una visione astratta e intellettuale: il “tutto” diventa una sorta di entità superiore che si può conoscere solo facendo un passo indietro, uscendo (per così dire) dalla lotta quotidiana; l’immagine stereotipata è quella di un centro studi: tanti ottimi pensieri, ma poca azione; per chi vive l’azienda è tutto troppo freddo, non sempre si può fare un passo indietro per ragionare razionalmente sul tutto e a volte le singole parti (in particolare quando si tratta di persone) e gli eventi superficiali (soprattutto quando toccano le persone) non possono essere tralasciati con facilità;
  • la visione olistica: una visione più intuitiva e dinamica, il tutto si presenta dentro e attraverso le parti che lo compongono; una visione che però spesso rischia di diventare troppo ottimistica: dà più spazio alle persone, ne rileva le potenzialità e le capacità di attenzione e inconsapevolezza, ma spesso dimentica le difficoltà che le persone attraversano, i conflitti e le aree di inconsapevolezza che tutti noi abbiamo; l’immagine stereotipata è quella di una comune anni ’60: pace e amore, ma poca comprensione delle tensioni e delle difficoltà reali; per chi vive l’azienda è tutto troppo sdolcinato: spesso bisogna prendere decisioni impopolari, agire in velocità, non sempre si può ascoltare tutti a e perdersi in discussioni infinite e senza esito, le persone contano tantissimo, ma un’azienda è fatta anche di prodotti, servizi, processi, tutte cose che richiedono pragmatismo ed efficacia.

La visione integrale

Per fortuna è emersa un nuovo modo di vedere, la visione integrale che mette insieme sia la prospettiva individuale sia quella collettiva (dal team di lavoro all’organizzazione e oltre), sia la prospettiva interiore che quella esteriore. Il risultato è un sistema a quattro quadranti che comprende:

  1. La dimensione oggettiva. È ciò che solitamente vediamo (o quantomeno dovremmo vedere) in una persona in azienda: i suoi comportamenti e i risultati che ottiene, e un po’ sotto il pelo dell’acqua, ma visibili per un occhio allenato le sue competenze, abilità e conoscenze;
  2. La dimensione inter-oggettiva. Qui c’è lo scheletro, la struttura portante dell’azienda: i sistemi (quelli informatici ad esempio), prodotti e servizi, le strutture organizzative (che siano scritte o meno su di un organigramma), le politiche aziendali, gli obiettivi che vengono definiti, le procedure che vanno seguite… è la dimensione alla quale è stata data storicamente più importanza e che probabilmente ancora oggi riceve le maggiori attenzioni in buona parte delle aziende.
  3. La dimensione intersoggettiva. Qui c’è il cuore dell’azienda, la sua cultura e i suoi valori, le sue tradizioni (soprattutto quelle non scritte), la visione e la missione (quando sono realmente vissute dalle persone) e soprattutto lo scopo dell’azienda, la ragione profonda per la quale esiste (oltre il profitto); qui ci sono anche le relazioni tra le persone e il clima che si respira nell’organizzazione. È una dimensione che negli ultimi anni ha avuto un’attenzione sempre maggiore, anche se spesso si tratta di un interesse superficiale (ad esempio avere una lista di valori da mettere sul sito internet).
  4. La dimensione soggettiva. Comprende ciò che una persona è dentro: pensieri, sentimenti, emozioni, attitudini. Qui il confine tra vita e lavoro si perde. Se una persona è autentica ed è pienamente se stessa, ciò che è nel profondo non cambia nelle diverse situazioni (mentre possono cambiare i suoi comportamenti, i risultati che ottiene e le competenze che usa). È la dimensione più delicata: quante volte abbiamo sentito dire “le questioni personali devono stare fuori dal lavoro” oppure “il lavoro mi permette di non pensare ai miei problemi”. Oggi il confine tra chi si è e ciò che si fa è però più sfumato, anzi sempre di più si vede come il modo migliore per ottenere risultati è fare qualcosa che rispecchia le nostri passioni più profonde e le nostre doti più naturali.

Un’organizzazione può dare più o meno attenzione alle dimensioni sopra citate. Una catena di negozi di abbigliamento può porre molta attenzione alla prima dimensione, cercando di trasformare le competenze delle proprie venditrici in comportamenti di attenzione al cliente. Un’acciaieria può dedicare la massima attenzione ai processi di produzione e alla qualità del prodotto che realizza. Molte delle aziende che hanno avuto grande successo negli ultimi decenni (Netflix o Alibaba) hanno investito molto sulla terza dimensione, in particolare sul proposito e sulla cultura aziendale. L’ultima dimensione è più di frontiera, è quella percorsa da quelle che Frederic Laloux chiama le organizzazioni Teal, che hanno tra i propri capisaldi l’attenzione all’essere umano nella sua interezza.

Le aziende: sistemi complessi che si adattano

Ma perché ha senso parlare di complessità e di pensiero sistemico in azienda? Per prima cosa perché le aziende non sono semplici: devono affrontare molte situazioni diverse fra loro, le connessioni (con clienti, fornitori, collaboratori etc.) cambiano costantemente e le cose che accadono dentro l’organizzazione non sono del tutto prevedibili.

E perché, nonostante qualcuno possa pensarla diversamente, le aziende non sono neanche sistemi caotici: i problemi e le sfide da affrontare sono tante, ma non infinite; le relazioni, i processi e le strutture rendono anche l’organizzazione meno funzionale qualcosa di più di un insieme disordinato di persone e cose; anche nella più grande disorganizzazione un minino di prevedibilità resta comunque (anche nell’era del Cigno Nero).

Un’azienda “caotica” può formarsi, ma non può sopravvivere (probabilmente è ciò che accade ad alcune start-up). Le aziende semplici invece fino a qualche tempo fa esistevano, forse ne rimangono alcune ancora in alcuni settori molto protetti, ma ce ne saranno sempre meno, perché non sono in grado di crescere nell’ambiente competitivo odierno che è in costante trasformazione.

Le aziende quindi non sono né semplici né caotiche, sono sistemi complessi adattativi come gli esseri viventi, gli ecosistemi o le culture. Come detto, le situazioni (problemi, opportunità, minacce, crisi, cambiamenti…) che un’azienda deve riuscire ad affrontare per sopravvivere sono molteplici, ma non infinite. Le diverse componenti (persone, team, business unit…) sono libere di agire, ma all’interno di una struttura gerarchica, che può essere una struttura piramidale classica, ma può anche essere una matrice, una rete di team che si auto-organizzano.

Questo mix di libertà e struttura genera un comportamento che non è né completamente prevedibile né totalmente imprevedibile e che viene definito comportamento emergente. Esattamente come il comportamento di un essere umano non può essere determinato basandoci sul comportamento dei suoi singoli organi (stomaco, cuore e, per quanto possa infastidirci, nemmeno dal cervello) o delle sue cellule, così il comportamento di un’azienda è un qualcosa di più (un qualcosa che emerge) rispetto alle unità che la compongono (reparti, sedi, team etc.) e alle persone che ne fanno parte. Inoltre, come tutti i sistemi complessi, sono chiuse e ad aperte.

Sono chiuse dal punto di vista organizzativo perché, anche se vivono in eco-sistemi complessi fatti di altre imprese, start up, consulenti etc., e con fittissime relazioni con tanti attori, hanno dei confini che li separano da ciò che l’azienda non è, sono confini permeabili ma restano tali, un po’ come i confini delle nazioni democratiche moderne.

Sono aperte ai flussi di energia e informazione: dai confini dell’organizzazione passano materie prime, prodotti, idee, progetti, che vengono trasformati e diventano nuova energia e nuova informazione che si proietta verso l’esterno sotto forma di efficacia e di innovazione.

Nei successivi articoli vedremo come le idee del mondo sistemico e della complessità – dall’auto-organizzazione all’interconnessione – possono trasformare il modo di pensare e di agire nelle organizzazioni diventando strumenti efficaci e utili per le aziende.

Un buon Business Model non basta. Serve anche un buon Management Model.

Modello di management

In un articolo precedente, ho provato a riassumere le caratteristiche di un’azienda vincente e che dura nel tempo. Oggi cercherò di andare più in profondità, portando la vostra attenzione al “dietro le quinte”, al modello di management, il vero “segreto” delle organizzazioni di successo.

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Essere strategici. A tutti i livelli. Dalla strategia individuale a quella aziendale.

La strategia è – definizione di Wikipedia – “un piano d’azione di lungo termine usato per impostare e coordinare azioni tese a raggiungere uno scopo predeterminato”, deriva dal greco strategos, generale. Nel corso del tempo ai generali, si sono sostituiti i funzionari statali, gli imprenditori, i manager, ma l’idea è rimasta tale. La strategia viene dall’alto, dalla direzione generale, dal top management, dall’amministratore delegato… Io invece vorrei proporvi una diversa visione della strategia, una strategia che può essere impostata a diversi livelli:

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Le 6 caratteristiche delle organizzazioni che hanno successo. E durano nel tempo.

Alcune imprese nascono, crescono velocemente fino ad arrivare a un successo eclatante, quanto effimero. Altre hanno una vita molto più lunga, ma sembrano sempre ai margini per il sistema, sopravvivono più che vivere. Poi ci sono organizzazione che – pur affrontando momenti di crisi anche intensi – restano nel tempo e ottengono grandi risultati.

Quali sono le caratteristiche di queste organizzazioni? In che cosa si differenziano dalle altre aziende?

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Studi aperti – primo colloquio gratuito

La GIORNATA NAZIONALE DELLA PSICOLOGIA, patrocinata dal Ministero della Salute, ha lo scopo di valorizzare e far conoscere maggiormente ai cittadini e alla comunità le potenzialità della Psicologia come scienza e come professione.

In questo ambito si colloca l’iniziativa STUDI APERTI, come occasione per favorire l’incontro tra i professionisti e gli utenti.

In occasione di questa iniziativa sarà possibile avere un primo colloquio gratuito per conoscere “in pratica” come lavoro, cosa vuol dire intraprendere un percorso di psicoterapia o di consulenza intenzionale, e capire come posso aiutarti.

Lo studio si trova a Milano, in Via Ariosto, 20 – MM1 Conciliazione e sarà aperto per l’iniziativa martedì 9 e martedì 16 ottobre.

In alternativa è possibile fissare un primo colloquio online.

Chi fosse interessato può contattarmi per ulteriori informazioni o fissare un appuntamento al numero di telefono 333-4200576 oppure via mail all’indirizzo max@massimilianoaramini.it.

E’ possibile leggere tutte le informazioni sull’iniziativa sul sito www.opl.it

La forma della trasformazione

Perché la spirale come simbolo, come forma per la trasformazione?

La spirale è molto presente in natura: dagli organismi unicellulari alle galassie, passando per i girasoli e le conchiglie, i vortici degli uragani e il volo del falco pellegrino.

La trasformazione è naturale: non è qualcosa di straordinario, alla portata di pochi. “Tutto si trasforma” diceva lo scienziato Lavoisier, l’unica cosa innaturale è pretendere di restare sempre immobili e immodificabili.

La spirale crescendo non cambia forma. E’ una proprietà di molti fenomeni di crescita naturale. Come il nautilo che, aumentando di grandezza, costruisce nella sua conchiglia camere sempre più spaziose, abbandonando e chiudendo quelle non più utilizzabili perché troppo piccole; mentre la conchiglia cresce, la forma del guscio non cambia.

La trasformazione è coerenza con la propria forma, non vuol dire diventare qualcun altro o tradire se stessi. Ogni cambiamento profondo – dal bruco che diviene farfalla alla conversione religiosa – è preparato da un percorso, che parte da una forma iniziale – magari semplice e apparentemente insignificante – e si dischiude in una forma compiuta e piena di significato. Come la piccola ghianda, della quale parla lo psicoanalista James Hillman, capace di trasformarsi in una grande quercia.

La spirale è uno schema sempre uguale che organizza una materia sempre diversa. Come accade alle galassie, dove la configurazione osservabile (a spirale appunto) rivela le parti della galassia più dense, perché ricche di nuove stelle.

La trasformazione è apertura. La forma della spirale è qualcosa a cui diamo forma prendendo materia dal nostro universo: gli altri, le relazioni, la comunità nella quale viviamo a diversi livelli (dal nostro ufficio o dalla nostra famiglia, alla nostra città, fino alla Terra) e la nostra capacità di ascolto e conversazione con tutto questo.

La spirale crescendo diventa sempre più ampia, aumentando sempre di più la distanza dal suo polo centrale, ma la parte di spirale più vicina al centro, tanto piccola da non essere visibile a occhio nudo, è perfettamente sovrapponibile alla sua parte più grande.

La trasformazione è crescita, ma non una crescita esponenziale, fine a se stessa. Trova il proprio limite, la propria giusta “dimensione”, non ha come metro di paragone il successo, ma la realizzazione di Sé, quella che Jung chiamava individuazione.

La spirale quindi somiglia a se stessa: grande o piccola conserva lo stesso aspetto.

La trasformazione è intenzionale, non perde mai di vista il proprio scopo e continua a realizzarlo dal piccolo al grande: il suo successo non sta nella dimensione dei risultati ottenuti, ma in quanto questi rispettino l’intenzione iniziale, il proprio scopo nella vita.

Un viaggio di trasformazione

Non si tratta di un itinerario di cambiamento lineare – una retta che congiunge un punto di partenza e una meta definiti, differenti e distanti tra di loro – ma di un percorso di trasformazione a spirale, dove il viaggio termina in un punto diverso da quello di partenza, ma in qualche modo vicino e simile.

Il movimento della spirale unisce la linearità, che è discontinuità e cambiamento, con la circolarità, che è continuità e tradizione, mette in connessione il futuro che emerge con la nostra storia, lo slancio vitale e la costanza nelle avversità. E’ la traiettoria che segue l’energia,  il percorso che segue l’evoluzione libera  ma armoniosa.  E’ il movimento della creatività, alla base di ogni vera trasformazione.